Introduzione: la vera Festa del Lavoro
Il 1° maggio arriva puntuale come un meme indignato su Facebook. È la Festa del Lavoro, ma ormai la conosciamo tutti come Festa dei Lavoratori. Una differenza sottile? Forse. Ma anche un indizio linguistico che rivela quanto il significato profondo di questa ricorrenza sia stato ridotto, distorto o semplicemente dimenticato. La Festa del Lavoro – lo dice la parola stessa – celebra il lavoro in tutte le sue forme, non solo quello dipendente. Eppure, ogni anno, il dibattito si arena su un’idea parziale e ideologizzata, che esclude intere categorie di lavoratori.
Il lavoro è uno solo? Spoiler: no

Secondo l’Articolo 1 della Costituzione italiana, “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Non sul lavoro subordinato. Non sulla busta paga. Non sul contratto collettivo nazionale. Semplicemente sul lavoro, inteso come qualsiasi attività che produce valore. Manuale, intellettuale, precaria, autonoma, imprenditoriale. Tutto ciò che contribuisce a creare, sostenere e far avanzare la società è lavoro. Eppure, nella narrazione dominante, sembra esistere un solo tipo di lavoratore: quello che timbra il cartellino.
Lavoratori di serie B?
Chi apre una partita IVA, investe soldi propri, rischia sulla propria pelle, viene spesso guardato con sospetto. O, peggio, ignorato. L’imprenditore? Quello “sfrutta”. Il libero professionista? Quello “evade”. Il freelance? “Si arrangia”. Eppure, senza queste figure, il sistema non esisterebbe. Nessuna azienda? Nessun impiego. Nessun impiego? Nessuna busta paga. Semplice, no?
In Italia, però, dire queste cose equivale a bestemmiare. Una narrazione vetusta continua a separare in modo netto chi “lavora” da chi “fa lavorare”, ignorando che, molto spesso, sono le stesse persone. Invece di celebrare anche chi crea opportunità, si preferisce restare fermi su uno schema rigido e superato.
La narrativa ideologica: una sfilata prevedibile
Ogni anno, il 1° maggio diventa una passerella per slogan già sentiti, comizi sindacali fotocopia, e una divisione ideologica netta tra “noi” e “loro”. Il lavoratore dipendente è il protagonista assoluto, mentre chi si spacca la schiena per pagare stipendi e contributi resta sullo sfondo, invisibile. Anzi, spesso considerato nemico. Una dicotomia che non regge più, né economicamente, né culturalmente.
Il lavoro è cambiato. E la festa?
Nel frattempo, il mondo del lavoro si è trasformato. Esistono nuove forme di impiego, ibride, intermittenti, creative, digitali. Lavori che non hanno orari fissi, né sedi fisiche. Lavori flessibili, globali, ma anche più vulnerabili. Celebrare solo il modello novecentesco del “posto fisso” significa ignorare milioni di persone che contribuiscono, ogni giorno, alla ricchezza del Paese.
Onorare il lavoro, non solo il lavoratore
La vera sfida, allora, è ritrovare il significato originario della Festa del Lavoro. Celebrare il valore del lavoro in sé, in tutte le sue manifestazioni. Onorare chi lavora, certo, ma anche chi crea lavoro. Chi rischia, chi immagina, chi costruisce. Chi, con fatica, tiene in piedi un sistema che spesso lo tratta con ostilità.

Conclusione: un invito a riconsiderare
Il prossimo 1° maggio, prima di condividere indignazione preconfezionata o di commuovervi per un meme di gattini e citazioni di Saviano, fermatevi un attimo. E riflettete. La Festa del Lavoro non è solo dei lavoratori dipendenti. È di tutti noi. Perché tutti, a modo nostro, lavoriamo. E spesso, i più ignorati sono proprio quelli che rendono possibile il lavoro degli altri.